Si guarda spaesato. Come se dovesse fare una fatica immensa a capire cosa deve fare e cosa gli altri vogliano da lui. Gli insegnanti si chiedono tra loro se Luca ha qualcosa che non va… sembra quasi che non capisca cosa gli altri dicano. Non parla bene. Avrà qualche problema?
Sì, un problema semplice e facilmente risolvibile, ma a cui nessuno pensa. È affetto da una forma di ipoacusia. Non è grave. Non è sordo totale. È quella forma di sordità con cui si può tirare avanti ma a costo di una immensa fatica. Tutto sarebbe facilmente risolvibile con un paio di apparecchi acustici, ma a lui la sola idea lo inorridisce.
Si vergogna. Sono brutti, quei tappi dentro le orecchie. È brutto far vedere che non ci sente, renderlo palese in questo modo.
Luca ancora ricorda quando, da bambino, i suoi compagni lo prendevano in giro in maniera crudele: sei sordo, sei sordo!! Ripetuto quasi a cantilena. Un marchio. Una stigma. Tremenda da sopportare e soprattutto da capire. Alla fine cosa chiedeva? Di giocare insieme come tutti i bambini, anche se poi capiva poco o nulla di quello che succedeva intorno a lui. Ma i bambini sono crudeli, a volte, soprattutto se nessuno li aiuta a capire che c’è qualcuno in difficoltà, che ha semplicemente bisogno di affetto e accettazione. A scuola era una sofferenza. Seguire la maestra nelle sue spiegazioni... Impossibile. Irraggiungibile. Meglio guardare fuori dalla finestra anche se poi, per tutti, era il grande sognatore della classe quello che, quando ci parlavi, ti guardava e si capiva benissimo che non ti ascoltava perché preso a inseguire i suoi mondi lontani....
Luca si perde spesso nei suoi ricordi e d’improvviso qualche compagno più arrogante, a mo’ di scherzo, gli consiglia una nota marca di apparecchi acustici e lui si offende terribilmente, come se lo avessero insultato tremendamente.
“Ehi, ma sei sordo? Ti sto salutando! E lavatele le orecchie la mattina!”
Le cose si fanno più complicate del previsto, ora a 14 anni deve decidere cosa fare, se continuare così o decidere di ammettere il suo problema e iniziare un percorso.
Sara arriva in classe con il sorriso. Tutti la guardano e fanno conoscenza. La osservano però in modo strano, ha delle cose in testa che non capiscono cosa sia. Lei candidamente dice che prima non ci sentiva bene anzi era quasi completamente sorda, ma da qualche tempo ha fatto l’impianto cocleare e ora ci sente. Ride di se stessa, sono quasi un robot! Tutti ridono, ma in modo affettuoso. Mi fai vedere come funziona? Le chiede un compagno. Lei glielo spiega con slancio, tutti stanno a sentire interessatissimi.
Anche i professori stanno in silenzio e lasciano che i ragazzi si conoscano così serenamente. È una bella classe, sussurrano tra loro.
Questi due casi, opposti, raccontano di disabilità non accettate, e quindi sofferte, e accettate e serenamente superate.
Purtroppo nella scuola sono di gran lunga più frequenti i casi di Luca. Il problema è che di rado si pensa alla ipoacusia. L’idea che un alunno possa non sentire non sfiora quasi mai il pensiero degli insegnanti. Si pensa che è distratto, che ha la testa tra le nuvole, che forse ha qualche problema cognitivo.
Quando c’è un alunno che non vede bene e non porta gli occhiali, quasi sempre gli insegnanti se ne accorgono. Spesso strabuzza gli occhi, si avvicina alla lavagna, guarda nel quaderno del compagno cosa l’insegnante stia scrivendo. Il controllo agli occhi è dopo immediato, su consiglio degli insegnanti, e qualche giorno dopo l’alunno arriva a scuola con un paio di occhiali e tutto va avanti senza problemi.
Per l’ipoacusia, invece, tutto è più complicato, specie quando è di lieve o media entità. Per questo è davvero un handicap invisibile, che isola nel suo immenso dolore chi ne è affetto. Il terrore della presa in giro, se si portano gli apparecchi acustici, è così devastante che ci si blocca al solo pensiero e ci si condanna a una sofferenza assurda. Assurda soprattutto perché non si pensa che i ragazzi hanno una sensibilità straordinaria e non prendono mai in giro chi è affetto da questa disabilità.
Se invece si decide di andare avanti senza nessun supporto, i danni possono essere notevoli, sia psicologici che di altra entità. Da un punto di vista psicologico, l’alunno piano piano penserà di non farcela, che forse un po’ stupido ci è per davvero, non si ritrova in gruppo, evita le cene di classe, nell’ora di motoria o di lingua straniera soffrirà tremendamente la sua ineduatezza, e tutti i compagni noteranno le sue difficoltà senza capirle, senza nemmeno immaginare il motivo.
Altri danni consisteranno nell’imparare male la propria lingua perché non si riusciranno a dire determinate lettere, da qui anche la scrittura ne risentirà, e quindi i canali di comunicazione ne vengono compromessi.
Ma perché un alunno si condanna a una simile sofferenza? E come va avanti senza poter ascoltare il mondo intorno a lui?
Il problema è la certezza di un rifiuto da parte della società per un handicap che può essere nascosto. Si preferisce non mettere gli apparecchi acustici perché sono brutti e creano un divario enorme tra il ragazzo i canoni di bellezza imposti dalla società. Gli occhiali, infatti, sono diventati un accessorio di bellezza, spesso valorizzano il viso, si vedono tranquillamente fotomodelli indossare gli occhiali e quindi questo strumento non viene più visto come un ausilio per superare un handicap. Gli apparecchi acustici, invece, urlano al mondo che si è sordi, che non si è perfetti, che si ha dei problemi. Tutto questo in età adolescenziale è un ostacolo insuperabile.
I ragazzi affetti da ipoacusia, anche grave, vanno avanti attraverso la lettura labiale, ma a costo di una fatica immensa e senza poter comunque comprendere come si dicano determinati suoni. Ma si accetta questo e altro pur di non andare incontro a dita puntate da parte di una società che vuole la perfezione. Quando al termine di una immane sofferenza, si decide a confessare il tremendo segreto a qualcuno, quasi ci si commuove per non essere stati derisi o per essere addirittura accettati.
Ma è poi vero che la società di oggi voglia la perfezione? I modelli imposti sono sicuramente questi, ma i ragazzi stanno forse cambiando, sono più critici, forse più maturi degli stessi adulti. Forse sono gli adulti a riversare sui propri figli i propri timori, in quanto ancorati a una società che, nella parte giovanile, è molto più sensibile.
Che fare, dunque? Agire su più fronti. In primo luogo è necessario che gli adulti stessi riescano ad accettare la disabilità del proprio figlio, senza sentirsi responsabili per questo handicap. Poi occorre sensibilizzare gli insegnanti dell’esistenza di questo handicap invisibile, e nel prenderlo almeno in considerazione quando si ha davanti un alunno in difficoltà, dall’altra i genitori, che sono ovviamente a conoscenza del problema del figlio, devono precipitarsi a scuola per spiegare la situazione, possibilmente anche prima dell’inizio delle lezioni. I docenti, infatti, sono in servizio dal primo settembre, e sono disposti a incontrare genitori se si richiede loro un appuntamento. Magari si potrebbe chiedere il loro aiuto per convincere il proprio figlio a imboccare la strada dell’accettazione e della serenità.
Se un insegnante, infatti, sa quali problemi hanno i loro alunni, già da subito agisce di conseguenza senza fare i danni di cui non è nemmeno consapevole. Come sarebbe deleterio chiedere di leggere ad alta voce a un alunno con DSA (disturbo specifico di apprendimento, che spesso è la dislessia) così sarebbe deleterio parlare scrivendo alla lavagna se si ha un alunno affetto da ipoacusia.
A ben guardare, quindi, basterebbe vedere la scuola non come un percorso a ostacoli dove il primo nemico è l’insegnante, ma come un periodo bello e entusiasmante dove il proprio figlio impara tante cose nuove, e soprattutto a diventare un maturo e consapevole cittadino del domani, a patto però che ci sia collaborazione tra genitori e insegnanti, lasciando a ognuno il proprio sacrosanto compito e supportando l’altro dove viene espressamente richiesto.
Quando c’è armonia e rispetto reciproco si supera tutto, davvero tutto, e i primi a essere sereni sono proprio gli alunni, che possono arrivare ad accettare e, se possibile, superare le proprie disabilità senza timore di alcun giudizio, ma anzi con la gioiosa consapevolezza di essere elemento integrante di una tranquilla comunità.
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